ATTENZIONE!!
LEGGERE bene questa recensione su un vecchio disco degli unruly child
Mentre la putrida armata discesa da Seattle spodestava gli act di hard melodico ed AOR dal loro trono nelle charts USA, e la scena si avviava a diventare un ricordo del passato o un genere di import giapponese, sepolto dalla recessione, dalla guerra del golfo e - sopratutto - dalle manovre forsennate e speculative dei discografici, poche, solitarie band, indifferenti a tutto quello che gli stava turbinando attorno, continuavano ad inseguire il sogno del perfetto album AOR che riuscisse a coniugare aggressività , eleganza, grandi arrangiamenti ed un suono di qualità assoluta. Se è vero che la perfezione non è di questo mondo, pure gli Unruly Child ( allo stesso modo di Bad English e Giant) riuscirono ad intessere un arazzo sonoro di sbalorditiva grandezza unendo con suprema efficacia chitarre metalliche dal forte retrogusto zeppeliniano e arrangiamenti di tastiere di chiara estrazione progressive su cui si adagiava con grazia ferina la voce ambigua e planteggiante di un Mark Free che dopo la grande e “clandestina” prova di forza con i Signal trovava finalmente un palcoscenico adeguato alle proprie possibilità espressive. Ma anche per Bruce Gowdy (ch.) e Guy Allison (ts.), gli Unruly Child costituirono un momento chiave dopo le poco felici esperienze precedenti, prima del solo Gowdy negli Stone Fury, e poi assieme nei fin troppo yesseggianti World Trade. Il lavoro di Beau Hill dietro la consolle era improntato al raggiungimento della più alta qualità possibile e se il suono non raggiunge i vertici del secondo Bad English o dell’ultimo White Lion, è pure vero che - paragone non troppo irriverente - c’era nella musica della band una sfumatura umbratile che ricordava tanto ( a livello di puro feeling) i loro maestri ispiratori Led Zeppelin, un’ombra melanconica che Hill riuscì con grande efficacia a mettere in luce con un mixaggio dove si alternavano magnificamente tinte splendenti ad altre più maliose ed oscure. Impossibile scartare una canzone, e impresa difficilissima descriverle una ad una; ma due pezzi in particolare meritano di finire in una ideale compilation del meglio del meglio che l’AOR abbia mai espresso: On the rise, dinamico atto d’apertura, nella quale la lezione degli Yes anni ‘80 viene riletta e trascritta in un solido telaio al là Page dove predominano soluzioni ritmiche di grande scioltezza e fluidità dettate in eguale misura dalla chitarra e da un’agilissima sezione ritmica, e poi il capolavoro assoluto, la perla inestimabile, uno di quelle rare canzoni che autorizzano ad usare la pesantissima e scomoda parola “perfezione”; Long Hair Woman, pur zeppeliniana fino al midollo, è un distillato di pura magia elettroacustica, dove lo spirito della band di Plant e Page viene ricreato e reinterpretato aldilà di ogni citazione e manierismo in un mosaico di suadenti chiaroscuri, una scheggia che pare strappata a forza da 'L. Z. III' o 'Phisical Graffiti' e tirata a lustro e poi sapientemente cromata per rifulgere in quel malinconico tramonto degli ‘80 (l’album uscì nel ‘92), stella solitaria fra le nuvole cupe del nuovo, nerissimo decennio.
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Gli fm li conosco,ma allora preferisco tra gli inglesi gli STRANGEWAYS[
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