“..se è vero com’è vero, che l’uomo è fra tutte le creature la più divina fra gli uomini che hanno avuto la fortuna di perdere i capelli, l’individuo completamente calvo è in assoluto l’essere più divino sulla terra” (Sinesio di Cirene 370-413 d.C.)
Correva il I sec. d.C. quando il sofista Dione di Prusa scrisse “l’Elogio della capigliatura”.
Tre secoli più tardi, A.D. 396, gli rispose Sinesio di Cirene, un particolarissimo spelacchiato, sofista anch’esso: pagano convertito, divenuto vescovo senza aver ancora ricevuto il battesimo, concentra nella sua personalità le contraddizioni del tempo.
Sullo sfondo delle invasioni barbariche, del conflitto non ancora sopito fra paganesimo e cristianesimo, proprio dello stesso autore (“Vescovo pagano”), il secolo IV d.C. è dominato da profondi contrasti: animato dalla speranza di conciliare gli opposti, il nostro, impregnato di un neoplatonismo prossimo all’ascesi, malgrado una sofferta e opportunistica conversione, non riuscì mai a sradicare la solida formazione ellenista assimilata dalla maestra Ipazia.
La testimonianza più evidente di questo dualismo è proprio “l’Elogio della calvizie”, la sua opera più nota: a pieno titolo un “divertimento” assimilabile ai paigna (archetipo nell’Encomio di Elena e uno sviluppo negli elogi paradossali della Seconda Sofistica).
L’opera di Sinesio non appare solo un mero esercizio dialettico volto a rivelare la tecnica del retore e spu***nare il capellone di turno: le agghiaccianti vicissitudini del pelo in caduta libera, del capello deceduto, conferiscono all’Elogio un palpito di verità e di sofferenza mal tollerata, magari pregna di quel timore chiamato “sindrome da bieco capelluto soffia-femmine”, che l’abbondanza di citazioni classiche, mitologiche, con tutte le loro debolezze e forzature, non riescono a celare.
L’urgenza di riconciliarsi col suo cranio disadorno lo spinge a una sequela di consolanti paradossi: il lettore moderno, più o meno ipertricotico, che sappia navigare leggero fra rimembranze omeriche e citazioni platoniche, potrà apprezzare.
Come non rimanere ammirati dalla capacità di Sinesio, oltre ogni dogmatismo estetico, di vedere il meglio dove gli altri vedono l’abominio?
I calvi: le loro teste “levigate e liscie come uova”, segno di saggezza, di integrità morale e di buona salute, sono assimilate ai pianeti, alla sfericità perfetta dei corpi celesti. Crani privi di residui animali (manco lupeschi? n.d.r.), diventano il tempio della divinità che alberga n
Correva il I sec. d.C. quando il sofista Dione di Prusa scrisse “l’Elogio della capigliatura”.
Tre secoli più tardi, A.D. 396, gli rispose Sinesio di Cirene, un particolarissimo spelacchiato, sofista anch’esso: pagano convertito, divenuto vescovo senza aver ancora ricevuto il battesimo, concentra nella sua personalità le contraddizioni del tempo.
Sullo sfondo delle invasioni barbariche, del conflitto non ancora sopito fra paganesimo e cristianesimo, proprio dello stesso autore (“Vescovo pagano”), il secolo IV d.C. è dominato da profondi contrasti: animato dalla speranza di conciliare gli opposti, il nostro, impregnato di un neoplatonismo prossimo all’ascesi, malgrado una sofferta e opportunistica conversione, non riuscì mai a sradicare la solida formazione ellenista assimilata dalla maestra Ipazia.
La testimonianza più evidente di questo dualismo è proprio “l’Elogio della calvizie”, la sua opera più nota: a pieno titolo un “divertimento” assimilabile ai paigna (archetipo nell’Encomio di Elena e uno sviluppo negli elogi paradossali della Seconda Sofistica).
L’opera di Sinesio non appare solo un mero esercizio dialettico volto a rivelare la tecnica del retore e spu***nare il capellone di turno: le agghiaccianti vicissitudini del pelo in caduta libera, del capello deceduto, conferiscono all’Elogio un palpito di verità e di sofferenza mal tollerata, magari pregna di quel timore chiamato “sindrome da bieco capelluto soffia-femmine”, che l’abbondanza di citazioni classiche, mitologiche, con tutte le loro debolezze e forzature, non riescono a celare.
L’urgenza di riconciliarsi col suo cranio disadorno lo spinge a una sequela di consolanti paradossi: il lettore moderno, più o meno ipertricotico, che sappia navigare leggero fra rimembranze omeriche e citazioni platoniche, potrà apprezzare.
Come non rimanere ammirati dalla capacità di Sinesio, oltre ogni dogmatismo estetico, di vedere il meglio dove gli altri vedono l’abominio?
I calvi: le loro teste “levigate e liscie come uova”, segno di saggezza, di integrità morale e di buona salute, sono assimilate ai pianeti, alla sfericità perfetta dei corpi celesti. Crani privi di residui animali (manco lupeschi? n.d.r.), diventano il tempio della divinità che alberga n