La verità sull'Afghanistan

gio82pac

Utente
21 Giugno 2003
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Kabul come Nassirya. L’Afghanistan come l’Iraq. Ma non ci avevano detto che la guerra in Afghanistan era finita? Che regnava la pace, tranne qualche “scorribanda talebana”? Il tragico attentato di Kabul, costato la vita a due nostri militari, non è una casualità isolata, un incidente di percorso in un contesto di pace e tranquillità. E’ la drammatica dimostrazione che la guerra in Afghanistan non è mai finita, perché la resistenza armata dei talebani non solo non è stata sconfitta, ma non è mai stata così forte come lo è oggi.

I numeri parlano chiaro. I primi tre anni di ‘dopoguerra’ hanno visto un progressivo indebolimento della resistenza talebana e un conseguente calo dell’intensità dei combattimenti: 1.500 morti nel 2002, mille nel 2003, settecento nel 2004. Ma poi il vento è cambiato. I talebani rifugiati in Pakistan si sono riorganizzati grazie al sostegno dei servizi segreti di Islamabad (Isi), all’appoggio dei movimenti integralisti pachistani e alle armi acquistate con gli incassi record del raccolto d’oppio 2004. Così nel 2005, i guerriglieri del mullah Omar sono dilagati dal confine pachistano riprendendo sostanzialmente il controllo di tutto l’Afghanistan meridionale e infiltrandosi anche nelle maggiori città. Il 2005 si è chiuso con il bilancio più pesante del ‘dopoguerra’: duemila morti, di cui la metà talebani (o presunti tali), 330 civili, 430 militari afgani, 99 soldati Usa (il doppio che negli anni precedenti) e 30 soldati del contingente Isaf-Nato (contro i 6 del 2004). E il 2006 si è aperto nel segno della stessa preoccupante tendenza. Nei primi quattro mesi dell’anno si contano già 751 morti, di cui 148 civili, 265 talebani, 302 militari afgani, 26 soldati Usa e 10 del contingente Isaf-Nato. Con in più l’inquietante novità del ricorso, da parte dei talebani, agli attentati suicidi, ormai quasi quotidiani.

Per noi italiani, tutto questo è una dolorosa scoperta.
Per gli statunitensi, invece, era una realtà acquisita da tempo. Il drastico aumento delle perdite nel corso del 2005 – politicamente insostenibile se sommato a quelle irachene – li ha costretti a ritirarsi dalle zone più pericolose (Kandahar, Helamand e Uruzgan), lasciando agli alleati della Nato il compito di combattere i talebani al posto loro, accettando con cinque anni di ritardo le profferte di aiuto bellico che l’Alleanza mise sul tavolo della Casa Bianca all’indomani dell’11 settembre 2001. Questo significa far cambiare la natura della missione Isaf: da missione
 

gio82pac

Utente
21 Giugno 2003
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Kabul come Nassirya. L’Afghanistan come l’Iraq. Ma non ci avevano detto che la guerra in Afghanistan era finita? Che regnava la pace, tranne qualche “scorribanda talebana”? Il tragico attentato di Kabul, costato la vita a due nostri militari, non è una casualità isolata, un incidente di percorso in un contesto di pace e tranquillità. E’ la drammatica dimostrazione che la guerra in Afghanistan non è mai finita, perché la resistenza armata dei talebani non solo non è stata sconfitta, ma non è mai stata così forte come lo è oggi.

I numeri parlano chiaro. I primi tre anni di ‘dopoguerra’ hanno visto un progressivo indebolimento della resistenza talebana e un conseguente calo dell’intensità dei combattimenti: 1.500 morti nel 2002, mille nel 2003, settecento nel 2004. Ma poi il vento è cambiato. I talebani rifugiati in Pakistan si sono riorganizzati grazie al sostegno dei servizi segreti di Islamabad (Isi), all’appoggio dei movimenti integralisti pachistani e alle armi acquistate con gli incassi record del raccolto d’oppio 2004. Così nel 2005, i guerriglieri del mullah Omar sono dilagati dal confine pachistano riprendendo sostanzialmente il controllo di tutto l’Afghanistan meridionale e infiltrandosi anche nelle maggiori città. Il 2005 si è chiuso con il bilancio più pesante del ‘dopoguerra’: duemila morti, di cui la metà talebani (o presunti tali), 330 civili, 430 militari afgani, 99 soldati Usa (il doppio che negli anni precedenti) e 30 soldati del contingente Isaf-Nato (contro i 6 del 2004). E il 2006 si è aperto nel segno della stessa preoccupante tendenza. Nei primi quattro mesi dell’anno si contano già 751 morti, di cui 148 civili, 265 talebani, 302 militari afgani, 26 soldati Usa e 10 del contingente Isaf-Nato. Con in più l’inquietante novità del ricorso, da parte dei talebani, agli attentati suicidi, ormai quasi quotidiani.

Per noi italiani, tutto questo è una dolorosa scoperta.
Per gli statunitensi, invece, era una realtà acquisita da tempo. Il drastico aumento delle perdite nel corso del 2005 – politicamente insostenibile se sommato a quelle irachene – li ha costretti a ritirarsi dalle zone più pericolose (Kandahar, Helamand e Uruzgan), lasciando agli alleati della Nato il compito di combattere i talebani al posto loro, accettando con cinque anni di ritardo le profferte di aiuto bellico che l’Alleanza mise sul tavolo della Casa Bianca all’indomani dell’11 settembre 2001. Questo significa far cambiare la natura della missione Isaf: da missione
 

gio82pac

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21 Giugno 2003
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Kabul come Nassirya. L’Afghanistan come l’Iraq. Ma non ci avevano detto che la guerra in Afghanistan era finita? Che regnava la pace, tranne qualche “scorribanda talebana”? Il tragico attentato di Kabul, costato la vita a due nostri militari, non è una casualità isolata, un incidente di percorso in un contesto di pace e tranquillità. E’ la drammatica dimostrazione che la guerra in Afghanistan non è mai finita, perché la resistenza armata dei talebani non solo non è stata sconfitta, ma non è mai stata così forte come lo è oggi.

I numeri parlano chiaro. I primi tre anni di ‘dopoguerra’ hanno visto un progressivo indebolimento della resistenza talebana e un conseguente calo dell’intensità dei combattimenti: 1.500 morti nel 2002, mille nel 2003, settecento nel 2004. Ma poi il vento è cambiato. I talebani rifugiati in Pakistan si sono riorganizzati grazie al sostegno dei servizi segreti di Islamabad (Isi), all’appoggio dei movimenti integralisti pachistani e alle armi acquistate con gli incassi record del raccolto d’oppio 2004. Così nel 2005, i guerriglieri del mullah Omar sono dilagati dal confine pachistano riprendendo sostanzialmente il controllo di tutto l’Afghanistan meridionale e infiltrandosi anche nelle maggiori città. Il 2005 si è chiuso con il bilancio più pesante del ‘dopoguerra’: duemila morti, di cui la metà talebani (o presunti tali), 330 civili, 430 militari afgani, 99 soldati Usa (il doppio che negli anni precedenti) e 30 soldati del contingente Isaf-Nato (contro i 6 del 2004). E il 2006 si è aperto nel segno della stessa preoccupante tendenza. Nei primi quattro mesi dell’anno si contano già 751 morti, di cui 148 civili, 265 talebani, 302 militari afgani, 26 soldati Usa e 10 del contingente Isaf-Nato. Con in più l’inquietante novità del ricorso, da parte dei talebani, agli attentati suicidi, ormai quasi quotidiani.

Per noi italiani, tutto questo è una dolorosa scoperta.
Per gli statunitensi, invece, era una realtà acquisita da tempo. Il drastico aumento delle perdite nel corso del 2005 – politicamente insostenibile se sommato a quelle irachene – li ha costretti a ritirarsi dalle zone più pericolose (Kandahar, Helamand e Uruzgan), lasciando agli alleati della Nato il compito di combattere i talebani al posto loro, accettando con cinque anni di ritardo le profferte di aiuto bellico che l’Alleanza mise sul tavolo della Casa Bianca all’indomani dell’11 settembre 2001. Questo significa far cambiare la natura della missione Isaf: da missione
 

tempions

Utente
15 Maggio 2003
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615
Sono i soliti articoli, i soliti dossier pieni di idee pacifiste e di retorica.
Oggi parlare di guerra di interessi mi sembra superfluo, è sotto gli occhi di tutto cio che accade, attualmente gli interessi più umani e quelli ideologici hanno lasciato posto ai miraggi delle grandi colonizzazioni pro-lucro.
Dispiace che a rimetterci sia sempre la povera gente , soldati italiani e delle coalizioni in primis.
A me ogni notizia di morte fà male, perchè sono stato 1 anno militare dell'esercito e se avessi continuato dopo il congedo...forse non starei sui libri come oggi a studiare ma li ' a lavorare con i miei amici.
Quando mi sono congedato e ho rinunciato a continuare l'ho fatto perchè avevo tanti dubbi, mio padre mi ha dato del poco coraggioso, del vile, termini di cui povero uomo ne ha abusato. Non mi manca il coraggio, l'onore, è solo che ho avuto uno scontro con la mia coscienza e ho pensato se domani dovessi andare in missione per qualcosa in cui non credo, ci andrei? Forse si , ma per rispetto all'istituzione e non ai miei valori.
Non so' , io non sono un pacifista, credo che gli armamenti sia alla stregua di ogni limite un vile strumento diplomatico ma vanno usati con parsimonia e con cognizione.
Allo sbaraglio non vogliamo vedere morti i nostri amici.
 

gio82pac

Utente
21 Giugno 2003
278
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265
non ho capito quello che volevi dire...cmq in Afghanistan c'è una guerra e noi pensiamo che i nostri soldati sono in missione di pace. Questo è il punto.
Se non ci fosse una guerra in Afghanistan ci sarebbero solo forze di volontari civili, quelli sì che sono eroi....